[Mondadori, Milano 2011]
I libri di Arminio hanno un pregio raro: nascono da un’idea. Un’idea fissa, e pertanto costantemente a rischio di sconfinare nel «vaneggiamento egotico», ma che non si risolve mai in ossessione privata. È, anzi, un’idea “generale”, ed è grossomodo questa: lo sviluppo che a partire dagli anni ’50 ha insediato anche in Italia la civiltà dei consumi è stato al tempo stesso una distruzione, che ha disgregato civiltà contadine millenarie, sfigurato il paese e condannato chi lo abita a una nevrotica tristezza.
Niente di nuovo, è l’idea che anima l’intera opera di Pasolini. Mentre però questi puntava il dito sul lato oscuro della modernizzazione capitalistica nel momento della sua decisiva accelerazione, gli anni ’50-’70, lo sguardo di Arminio si posa sul paesaggio quale appare dopo il diluvio, all’indomani della morte delle lucciole, del genocidio culturale, del trionfo del nuovo fascismo, della mutazione antropologica.
La «paesologia», questa «via di mezzo tra l’etnologia e la poesia», non è altro che una pratica efficace per sottrarsi all’incantesimo frastornante dei mass media e guardarsi intorno coi propri occhi, per descrivere «il luogo» – della storia – «in cui ci troviamo ».
La notizia che lo scrittore riporta dalle sue ricognizioni, a partire da Viaggio nel cratere (2003) fino a questo Terracarne, che ne è una sorta di summa, è bifronte: la catastrofe della modernizzazione è compiuta, «la vita è sparita» tanto nei paesi «invisibili » dell’aspra Irpinia d’Oriente quanto nei paesi «giganti» dell’hinterland napoletano, e persino là dove tutto sembra funzionare, conciliandosi senza frizioni con la civiltà precedente, per esempio in Alto Adige, si ha la sensazione di «non avere scampo »; d’altra parte, proprio perché compiuta, la catastrofe comincia a rivelarsi tale, il mito del consumo perde smalto, e insieme alla nudità del re iniziano a manifestarsi le premesse di una «nuova religione », una nuova narrazione del mondo indispensabile alla sua trasformazione.
La metafora della malattia (dell’ipocondria), intorno a cui Arminio costruisce la sua prosa, appare dunque perfettamente funzionale non soltanto a mettere in evidenza il nesso tra la comunità (dell’«autismo corale») e l’individuo (inscindibilmente vittima e carnefice), tra la spossatezza del corpo e quella del paesaggio, ma a esprimere la tensione in cui la nostra civiltà è sospesa: tra angoscia di morte e speranza di guarigione.
Nonostante Terracarne sia stato immesso nel medesimo flusso mediatico-discorsivo di Gomorra (la stessa collana mondadoriana, con la “faccia” dell’autore a tutta pagina in quarta, l’evidente simmetria di titolo e sottotitolo) e nonostante gli elementi che effettivamente accomunano i due scrittori (l’impegno civile, l’attiva presenza sul web, l’innovativa riformulazione di una “questione meridionale”, la rivendicazione di un ruolo politico, ampiamente inteso, per la letteratura), l’operazione di Arminio è radicalmente diversa da quella di Saviano. Lo si evince, peraltro, dall’uso assai differente della “funzione” Pasolini: mentre Saviano raccoglie il testimone dell’intellettuale corsaro, portando quelle «prove» che l’autore del Romanzo delle stragi affermava di non avere, Arminio va sulle tracce del regista che per il suo Vangelo secondo Matteo sceglieva le campagne di Barile, in Lucania, perché più vicine alla civiltà dei tempi di Cristo di quanto non fosse la Palestina degli anni ’60. Saviano, narratore che si fa cronista, opera per addizione; Arminio, poeta che si fa antropologo, per sottrazione (di qui la straordinaria reticenza dei suoi resoconti di viaggio, che non documentano nulla, se non il lento precisarsi di un’idea attraverso «il passare del corpo nel paesaggio»).
Questo diverso atteggiamento dà luogo a scritture che, altrettanto indispensabili e in certa misura complementari, si collocano, anche formalmente, su due crinali opposti della storia, corrispondenti a due opzioni alternative: correggere la modernizzazione capitalistica, oppure disertarla.
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